Albania (2014)

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“No… non andate in quella casa, hanno appena fatto un funerale, non è il momento buono. Gli hanno ammazzato un figlio… qui è così, vendette tra famiglie, storie vecchie…”

Giorno di Pasqua. Avevamo lasciato Rrogam, nel remoto parco nazionale di Valbona, prima dell’alba, per andare a prendere il traghetto che attraversa il lago di Komani. Una navigazione, a detta di tutti, spettacolare.

Il giovane albanese sorridente, dai capelli corvini e arruffati, ci allungava gentilmente il suo cellulare per farci riuscire a contattare la ditta di autonoleggio dell’aeroporto di Tirana.

Dushaj, villaggio di poche case, due chiese, due scuole e due bar, sulla strada che porta all’attracco del traghetto, era in ampliamento.

Era adatta soprattutto ai grossi macchinari e bulldozer che si stavano facendo strada lungo a quello che era nulla più che un viottolo in bilico sul bordo del lago delle acque verdi turchese.

Una scia di riflessi iridescenti si allargava da sotto la Panda a cambio automatico. Ed il cruscotto visualizzava messaggi inequivocabili.

Erano le otto del mattinoA avevamo superato il villaggio da qualche chilometro e l’attracco non si vedeva ancora.

Non c’era anima viva, c’era solo fango, freddo e pioggia insistente.

I nostri due cellulari erano praticamente scarichi perché la notte precedente non avevamo corrente elettrica disponibile.

La calda ed accogliente fattoria “B&B” Rrogam l’avevamo raggiunta al crepuscolo del giorno prima, ben oltre a dove la strada bianca si arrestava attraversando una pietraia che era il guado di un ruscello. Nella penombra della sera, la fattoria dalle fioche luci gialle che filtravano dalle tende alle finestre, era la base di una splendida cornice alpina con cime innevate. Accoglienza gentile e discreta, con pranzo servito a noi seduti a tavola, con la famiglia contadina di fronte, seduta ad osservarci. Senza preavviso, l’energia elettrica venne staccata alle 21.00. Consuetudine delle zone rurali.

Con la panda fuori uso, eravamo riusciti a comunicare con l’autonoleggio grazie al cellulare offerto dall’albanese, segnalando la nostra posizione ed il nostro problema.

L’Italiano è la seconda lingua parlata in Albania, imparata dalla TV o direttamente in Italia, dove moltissimi albanesi sono stati a lavorare oppure hanno qualche parente che ci lavora. Nel periodo comunista, finito nel ’90, nelle scuole venivano insegnati il russo ed il cinese, unici stati con cui l’Albania avesse rapporti e da cui riceveva aiuti.

L’unica persona che non capiva l’italiano incontrata in Albania, apparì poco dopo, in mezzo alla nebbia ed alla pioggia, sotto un grande ombrello nero, con una giacca militare e degli stivali verdi con tutte le sfumature dei colori del fango.

Ma la comunicazione può essere efficace anche senza l’uso di una lingua.

Il ragazzo dall’espressione rurale ed impassibile, commentava ogni nostro problema con un incredibile efficacia: un fischio con un tono discendente.

Una geniale modulazione sonora d’altri tempi che conteneva ed esprimeva, sommandole, le espressioni di sorpresa, sdegno, fastidio, commiserazione, dispiacere. Empatia? no, non in Albania. Ogniuno deve cavarsela da se.

Com’era arrivato se ne andò, senza aggiungere altro, salendo su un barchino ormeggiato più avanti che non avevamo notato.

Abbandonata l’auto e raggiunto il piccolo villaggio di Dushaj tra il fango e la pioggia, abbiamo incontrato al limite del paese il ragazzo dai capelli corvini che ci ha offerto il suo cellulare.

Era in paese per il funerale del suo parente morto, ma era allegro e felice di aiutarci.

Ci consigliò attendere raggiungendo i bar della piazza. “Andate nel bar di destra!, quello cristiano, non in quello di sinistra che è mussulmano”.

Avremmo dovuto attendere circa otto ore. Avremmo quindi avuto il tempo di provarli entrambi.

Caffè alla turca dai limacciosi depositi ed un gusto profondo e serioso, contro l’espresso cremoso, spavaldo, ruffiano e veloce di una macchina di ultima generazione dal nome italiano.

“Qui la gente non capisce! Guarda solo fino al limite della propria porta o del cancello del proprio giardino. Quello che è tuo è tuo. Quello che è di tutti … non è affar tuo.”

Il giovane cameriere rientrato da Cesenatico per qualche giorno di festività cercava di spiegarci quello che per lui, ormai in Italia da anni, era diventato lampante.

“Tu vedi le rive dei nostri fiumi con uno schifo di sacchetti azzurri attaccati alle piante, alle rocce, agli arbusti. In Albania tutto quello che compri lo porti a casa in questi sacchetti azzurri che puzzano di petrolio, che poi si usano per buttare le immondizie. Le immondizie qualcuno le brucia (ecco spiegate le piccole colonne di fumo nero che ad ogni ora si alzano attorno alle città), qualcuno le butta. E poi le ritrovi nei fiumi, nei campi , dappertutto. Nessuno si pone il problema dell’ambiente e che è di tutti. Io che sono ormai italiano lo vedo e mi da fastidio.”

Il bar affollato a tratti girava tutto attorno alla sua dimostrazione orgogliosa dello smartphone con grosso display su cui giravano video degli ultimi successi.

Ogni tanto entrava una banda di tre personaggi dalle facce losche un po’ su di giri che venivano a sedersi al nostro fianco tirando rumorosamente sotto il sedere le sedie e distribuendo pacche sulle spalle da vecchi amiconi.

Un “furgon”, un furgone nove posti, sistema di trasporto efficace e capillare, per andare (ed arrivare da) ovunque, senza ne orari ne percorsi, almeno apparentemente, aspettava pazientemente in mezzo alla piazza, tra un viavai di gente e di altri “furgon”, tra un carico ed uno scarico, tra un saluto ed un urlo.

Sicuramente è gente che sa come cavarsela in qualsiasi condizione ed occasione.

Un paese in cui all’inizio del novecento si introdusse l’alfabeto latino per stabilite una norma ed unificare una lingua in cui coesistevano l’alfabeto greco, l’alfabeto cirillico, e la versione turco-ottomana dell’alfabeto arabo.

Un paese disseminato di bunker per la paranoia di un leader che temeva un’invasione. Bunker così ben fatti che sono quasi indistruttibili e si trovano dalle spiagge bianche immacolate dalla Llogara fino alle pianure fertili di Apollonia.

Dove tutto si compra ancora nei mercati lungo le strade, il burro ed il formaggio non è refrigerato e tutto è pesato su bilance arrugginite. E se non stai attento tra la merce da pesare ti infilano di nascosto qualche peso per far salire il conto.

Un paese dove ci sono solo Mercedes di grossa cilindrata e la loro pulizia è maniacale tanto che più mancare di tutto, ma mai un “lavaz” dove gli albanesi strigliano e lustrano le loro macchine.

E dove il nostro timore e pregiudizio si è infranto incontrando persone amichevoli, accoglienti e sincere, sempre disponibili per parlare, per raccontare, per conoscere.

Come quella sera a Durazzo, fuori da un piccolo bar, con una chitarra, un violino a cui era stata montata una corda di fortuna ricavata da un freno di una bici, e dove gli scaricatori del porto consumavano quei pochi soldi rimasti in giri infiniti di birre, cantando, suonando, ballando.

Musiche melanconiche e commuoventi, con un portamento a testa alta ed un incedere solenne, una forza pulsante decisa e solida.

Tutti assieme. Con un sorriso.

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