Italy coast to coast 2017
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Una idea che mi conquista. Uno sforzo organizzativo. Ed il piatto è servito. Come quando si ordina un piatto che non si conosce.
Fare lo zaino: Come quando si trasloca, cambiando vita.
Si vuole portare con se solo quello si immagina indispensabile.
E’ il momento in cui ci si rende conto di quanto poco ci serva.
Ma in realtà, mi accorgerò in seguito, quel che serve è ancora meno.
Nello zaino quello che serve pesa.
Ho tolto, prima della partenza, tutti gli sfizi e le scorte prudenziali, scegliendo ogni oggetto secondo la molteplicità d’uso e l’essenzialità.
Ma per quanto acuta o razionale possa essere la selezione, le situazioni si rivelano solo vivendole.
La mantella per la pioggia, scelta on-line, l’avevo vista solo in foto ma non toccata ed annusata. Avevo deciso l ‘acquisto secondo una lista di caratteristiche tecniche, prezzo, popolarità e feedback.
E’ stata la prima ad essere abbandonata per strada.
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Un viaggio a piedi significa prima di tutto uscire dalla propria “comfort zone”.
Una attività che per noi è la più naturale diventa una avventura, un mettersi alla prova “attraente e piena di fascino per ciò che vi è in essa d’ignoto o d’inaspettato”.
In un mondo di scadenze, di meccanismi consolidati, di ripetizione e consuetudini, di informazioni sovrabbondanti, l’ignoto è indesiderato. Ma il caos è l’elemento creativo dell’universo.
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Inutile pensare ai giorni successivi quando quel che si deve fare succede oggi.
Le descrizioni del percorso possono solo in parte preparare a quello che ci aspetta.
Camminare con questo caldo a 40 gradi di fine giugno, che ti stringe, sembra ti comprima, mi fa capire il valore dell’ombra delle antiche strade alberate, che ogni tanto ora fortunatamente incontro. Questa finalità oggi è completamente andata perduta.
Nessuno degli svincoli, delle circonvallazioni, delle tangenziali sono alberati.
Non servono alberature per il nostro comfort e la nostra velocità.
A piedi tutto è restrizione. E’ una dimensione a cui non sono abituato.
Per ogni nostra esigenza è comune pensare di “andare al supermarket”, “cercare un bar”, “andare a mangiare”, “andare a dormire”.
Non mettiamo mai in conto esista una distanza fisica tra noi e le nostre esigenze.
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Andando, si impara a distribuire il peso regolando lo zaino.
Andando, si impara a sgranchire i piedi dentro gli scarponi, variandone l’appoggio, alla ricerca di una distribuzione ottimale più che di un equilibrio.
Andando si impara a usare tutti i sensi, a stare attenti, ad osservare, a sentire.
E quando la postura, il carico, il movimento funzionano al meglio, si ha una soddisfazione quasi artistica.
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Il Primo giorno tutto era troppo.
Troppo caldo, troppa salita, Troppa distanza, troppo peso, troppa sete, troppa fatica.
Ma ero io a non esser pronto.
La prima sera, all’arrivo,togliendo lo zaino, troppo pesante, ho sentito un dolore mai sentito prima.
Era nei muscoli tra collo e spalla. Due pugnalate.
Poi c’era anche la schiena bloccata in un punto che solo il mio chiropratico di fiducia avrebbe potuto sistemare.
La prima sera c’era lo sforzo che era andato oltre a quello che mi aspettavo.
Ma c’erano soprattutto i dubbi su quello che stavo facendo e se fosse una cosa che potevo riuscire a fare.
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Scrivo sui miei pensieri e dubbi, avuti la sera del primo giorno, solo dopo la metà del percorso perché è qualcosa che il mio orgoglio ha dovuto lasciar sedimentare.
La prima sera sono uscito per le vie di Osimo, stanco e dolorante, cercando un posto per mangiare.
Sul tavolo di quel ristorantino ho scritto delle frasi senza riferirmi al mio stato ed ai miei dubbi.
Ero sconfitto. Ero convinto di non riuscire a ripetere una giornata come quella che stava per concludersi.
Ma non sapevo ancora della magia della notte e del riposo.
Una notte miracolosa. Il mattino seguente la gran parte del dolore era passato. Ed allora perché non provare a rimettersi in cammino?
La prima cosa da fare, l’alleggerimento dello zaino, aveva dato effetti percepibili. La temperatura piacevole rispetto la calura del giorno precedente ed era un ottimo incoraggiamento.
Ed allora si va!
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La pioggia all’orizzonte era un problema previsto. E’ l’occasione per testare i materiali che si rivelano inadatti. Sono da rimpiazzare. Ora saprò scegliere qualcosa di adatto.
E’ bello camminare sotto la pioggia ma solo fino a quando non diventa troppo intensa.
Ed allora cerco riparo.
La pioggia, sopratutto, ti chiede una cosa: pazienza.
Di attendere e di lasciarla passare.
Mi fermo sotto una stretta tettoia di una casa abbandonata. Poi accanto ad un albero, vicino ad un cancello, dove un husky mi fa compagnia per tutto il tempo.
Quindi al riparo di un poggiolo in un casolare isolato, rannicchiato per il freddo, ad osservare il diluvio e le nuvole nere e basse che veloci si susseguivano sulla campagna.
L’orizzonte bianco, seminascosto dalla pioggia, mi diceva che ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Quindi mi sono messo comodo, ad aspettare.
&
Le tappe si susseguono. Gli scarichi dello zaino pure. Mi rendo conto di quanto poco mi occorra veramente, di come ora sarei capace di scegliere meglio gli indumenti, di quanto bene funzionino alcuni e di quelli con qualche pecca.
Lo zaino, pur alleggerito, pesa soprattutto per l’acqua necessaria, ora due litri e mezzo o tre ma in seguito anche quattro. Ora però il peso è accettabile.
Oppure sono io ad essermi abituato.
E quando faccio caso al peso significa che è ora di fare una sosta. Tutto molto semplice.
Ripensando alla prima notte, in cui come per magia i dolori si sono dissolti, immagino come il corpo abbia una certa capacità auto-riparatrice, rigenerante, che tenda a riportarci ad un nostro stato ottimale.
Non sarà così, ma mi piace immaginarlo.
Mi piace pensarlo, ma nei fatti la cosa è diversa, perché ogni giorno si tirano nuove somme.
Un fastidio alla schiena che mi porto dietro dal primo giorno, ora, a quattro giorni dalla fine, mi sta chiedendo il conto.
Il primo giorno l’ho imputato allo zaino. Ma non è passato. Ogni giorno si consolida e rafforza leggermente. Ora mi sembra più come uno di quei problemi che solo il mio chiropratico può sistemare.
Ricordandomi di dove, una settimana fa,lui mi massaggiava per risolvere un problema simile ed esattamente simmetrico, ho cercato di ripetere da solo la manovra benefica.
Per qualche giorno sembrava funzionasse, ma ora stava progressivamente e velocemente diventando un vero problema.
Fortunatamente nella casa di campagna dove avevo trovato alloggio per la sera, mi hanno procurato la visita di un fisioterapista olandese trapiantato in un paese a pochi chilometri che operava a domicilio. Ora sono in mano a chi ha la giusta conoscenza.
Che sollievo.
Un piccolo scrocchio quasi a fondo schiena mi dice che tutto ora si è sistemato.

L’aspetto nuovo di questo viaggio è sicuramente il fatto di dover maturare una strategia, per evitare o tenere sotto controllo i problemi, per poter apprezzare con serenità il viaggio.
Il caldo inconsueto, l’attività fisica, le risorse limitate rendono necessario il calcolo, la previsione, il metodo.
Il tempo che ho a disposizione per camminare si è ristretto. Dopo mezzogiorno si sfiorano o va oltre i 40°.
Ho spostato quindi le partenze appena prima dell’alba, Limito le soste, anche se per evitare le vesciche è meglio fermarsi e togliersi gli scarponi almeno una volta.
Lo sapevo.
Ma l’ho imparato a mie spese quando non l’ho fatto.
Le scorte d’acqua sono calibrate con gli approvvigionamenti possibili previsti, in modo da limitare il peso. Ma non basta.
Verso mezzogiorno meglio che l’acqua sia fresca in modo che, nel caso di percorrere un sentiero non ombreggiato ed il caldo sia soffocante, ci sia la possibilità di rinfrescarsi oltre che idratarsi.
Allora ogni sera metto in congelatore tre bottiglie da mezzo litro d’acqua. Le tengo in ognuna delle due tasche laterali assieme ad un’altra con acqua che viene quindi tenuta fresca da quella ghiacciata. Una la tengo all’interno dello zaino avvolta in un asciugamano per tenerla isolata, e se non viene srotolata arriva fresca fino a destinazione.
Verso Bolsena, dopo mezzogiorno, in una delle giornate più calde, avendo finito l’acqua, sono dovuto rimanere ad attendere che si sciogliesse del ghiaccio per poter bere. Ho lasciato le bottiglie ghiacciate al sole e mi sono seduto all’ombra (stretta per mia sfortuna) di un cipresso, unico albero su un’altura brulla e secca che ricorderò come più come il confine con il Texas che non con il Lazio.
Un’altra volta arrivando a Filottrano, nonostante avessi pianificato l’uso dell’acqua, l’ho finita in largo anticipo. Arrivato quasi a destinazione il bar sulla strada era chiuso. Ho chiesto ad una signora se ce ne fossero altri ma erano qualche chilometro più avanti. “Ma se vuole dell’acqua gliela do io!”. Di sicuro mi ricorderò del valore di quel regalo.
L’acqua è vita. L’acqua è energia. Non ha calorie, ma l’effetto di una abbondante idratazione, soprattutto dopo una privazione, è una delle cose più potenti che abbia mai sentito.
Una andatura, un carico, una strategia, per gustarmi i paesaggi, respirare i luoghi, immergermi nel viaggio lento di un percorso fatto a piedi.
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Ho visto una Italia di campi, di casali abbandonati o in vendita; Di contrade, di viottoli sterrati e di strade solitarie.
Ho visto forse più trattori che macchine, oppure delle panda vecchio modello, preferibilmente 4×4. Ho visto borghi con vita lenta, dove i bambini imparano a camminare per strada sorretti dalle nonne.
Ho incontrato molti contadini.
Come quelli di Lungopiano, che si lamentavano per la mancanza d’acqua della regione Toscana mentre “al tiro di due schioppettate”, in Lazio spuntano dai campi dei bocchettoni di una fitta rete di irrigazione.
Discutevano, verso mezzogiorno, nello spiazzo tra le case della contrada. Vedendomi indirizzato verso la fontanella, mi hanno richiamato scherzando e dicendo che c’era qualcosa di ben meglio dell’acqua.
Nel “cantinone” del seminterrato un profumo fruttato e dolce impregnava le stanze dove, nella penombra, riposavano grossi tini.
Due bicchieri, uno zampillo di morellino, quattro risate.
Salute!
C’erano vecchine che la sera preferivano scendere in strada, ignorando la televisione, per discutere, per far scorrere il tempo chiacchierando assieme a quelli che forse erano parenti o vicini di casa.
C’era sempre una o più sedie vicino al portone o nei corridoi d’ingresso delle case.
Sedie in plastica, tutte uguali, quasi fossero di un modello approvato da delibera comunale.
E la sera il ritrovo è in strada.
Nei paesi piccoli, come è noto, la gente deve pur mormorare.
E’ quel mormorio al crepuscolo che crea il tessuto “social” di quei borghi.
Così diverso da quello delle persone ipnotizzate di fronte a dei telefoni che non telefonano, che fanno sempre sentire di essere da qualche altra parte.
Una anziana, dopo una lunga e ripida scalinata in salita, si riposava appoggiata ad un muretto all’ombra. Le ho chiesto:
“Cosa succede ad Onano?”
Vedendo che scrollava la testa senza trovare la risposta, ho aggiunto:
“Niente?”
“Niente, … grazie a Dio!”
E’ una risposta che mi è rimasta tra i pensieri, facendomi sbirciare nella natura di questa vita lenta. Così agli antipodi da uno spot turistico, così poco desiderabile ed attraente. Una accettazione rassegnata o ineluttabile della vita come viene, per noi, poveri peccatori.
Ho trovato gente che vedendo lo zaino, scarponi e bacchette ti saluta e ti augura “buona passeggiata”, sentendosi partecipe del tuo camminare. Qualcuno dà l’impressione di pensare: “Piacerebbe anche a me, quanto mi piacerebbe, ma non posso. Allora fallo tu, anche per me.”
Qualcuno, sapendo che chi passa da quel percorso tanto inusuale sia un “coaster”, sorridendo chiede: “Orbetello”?
I più simpatici sono stati due anziani su una panda 4×4, guarda caso, in una strada di campagna, tra Treia e San Severino Marche. Li ho sentiti arrivare venti minuti prima, con il motore quasi imballato, ad una velocità da pista ciclabile. Hanno rallentato ulteriormente fino a fermarsi, abbassato il vetro chiedendo, con la cadenza marchigiana: “Andiamo ad Orbetello?”
Un giorno a Cannara, vicino a Assisi, una signora mi ha chiesto da dove venissi.
“Portonovo di Ancona”.
“Ma che ora è partito?” probabilmente non riuscendo ad afferrare la situazione.
Un’altra, catastrofista del genere “è successo a mio cuggino”, come commento al mio percorso, ha riferito che “mia sorella andava sempre a camminare un’ora al giorno, ed ora ha dovuto operarsi all” anca…”
Solo lungo la via Francigena l’augurio si è trasformato in un più nobile “buon cammino”.
Come se il pellegrino avesse uno status più nobile, una finalità più alta, un senso morale virtuoso.
Nella giornata più lunga, in quella che mi è sembrata l’eterna salita al monte Alago, prima della discesa verso Nocera Umbra, in un momento abbastanza critico, mi si è affiancata una macchina con tre “ragazzi stagionati” che mi volevano offrire un passaggio, che ero deciso a rifiutare.
Con uno di loro stabilisco subito una simpatia dovuta dal nostro comune accento veneto.
“Lo fai per devozione o per amore?”
“Nessuno dei due”.
“Per Sport?”.
“Neanche. Lo sto facendo perché è qualcosa che non so…”. Il veneto prima ci pensa un attimo e poi sorridendo: “Questa è una buona risposta! … Buona passeggiata!”
Nella tappa verso Todi, l’ ottava, ero quasi arrivato.
Dovevo affrontare l’ultima salita a ridosso della città, verso le tredici, con il sole a picco. La temperatura era di 41°. La partenza era stata all’alba. Il percorso era stato di 34 km e non avevo ancora messo a punto la strategia delle bottiglie ghiacciate.
Da prima della partenza, ero determinato a fare tutto il percorso da solo senza aiuti.
Incamminandomi verso la salita ero combattuto tra l’orgoglio del riuscire a fare da solo ed il chiedere aiuto, perché sentivo fosse arrivato il momento di averne bisogno.
Ho sentito una macchina dietro di me e girandomi ho tirato fuori la mano col pollice alzato come non avevo mai fatto in vita mia.
La cinquecento (nuovo modello) si è fermata ed un simpatico camionista della mia età è stato felice di darmi un passaggio ed evitarmi quell’ultimo sforzo.
Ed io sono stato felice di trovare aiuto, di trovare empatia e disponibilità gratuita.
Mettendo da parte il mio l’orgoglio, siamo stati felici in due.
*
E’ stata una camminata nei profumi .
E’ stato il sottofondo continuo che mi accompagnava ad ogni passo, sottolineando il luogo ed il momento.
Menta, menta ed ancora menta, con tantissime declinazioni. Profumi di fiori, di miele, di terra, di polvere, di torba, di liquirizia, di muschio, di acqua stagnante, di bosco.
Rovi, rovi ed ancora rovi, tanto odiati nelle escursioni sulle colline vicino casa, ora un po’ perdonati per la quantità di more che mi hanno offerto. Anche loro in fondo hanno qualcosa di buono da offrire.
A volte per riempire delle ore interminabili seguivo la cadenza del passo, arricchita dal ritmo asimmetrico in levare delle bacchette. Un mantra, una cadenza ipnotica che ti estranea, ti porta altrove con i tuoi pensieri.
Mi venivano in mente i religiosi che girano in cerchio.
Una sensazione levitatoria, che spostava la concentrazione della mente dal contatto con il terreno.
L’emozione più grande: La vista della meta, Orbetello, sbirciata attraverso i cespugli dopo essere uscito dal tombolo di Feniglia.
Eccolo il traguardo.
Bella avventura.
Senza mai essersi sentiti soli, perché i posti, le persone, la natura ed i miei pensieri mi hanno accompagnato.
Giorni più intensi, con una montagna di ricordi, altri meno.
Ma tutti hanno portato qualcosa.
Ogni giorno, messo in fila, ha portato a compiere il progetto globale.
Questa è la vita.
Ora che è solo un ricordo, cosa mi ha lasciato oltre a tutte le immagini, le sensazioni, le scoperte?
Serenità.
La serenità che qualsiasi cosa succeda la si affronterà, un passo alla volta.
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Dal 23 luglio al 09 Agosto 2017
18 tappe
427km
8280 mt di dislivello
tappa più lunga 37,2 km
Portonovo
Osimo
Filottrano
Treia
San Severino
Pioraco
Nocera Umbra
Assisi
Gualdo Cattaneo
Todi
Civitella del Lago
Orvieto
Bolsena
Onano
Sorano
Pitigliano
Manciano
Capalbio
Orbetello
12 Caprioli
3 Lepri
2 Fagiani
4 Volpi
1 Lontra